É stato ritrovato mercoledì mattina il corpo senza vita di una studentessa dell’Università Iulm di Milano. Secondo le ricostruzioni la ragazza avrebbe utilizzato una sciarpa avvolta intorno al collo con l’altro capo appeso a una porta per potersi soffocare in uno dei bagni dell’edificio 5. A rivelare il dramma è stato uno dei custodi dell’ateneo che durante le funzioni di controllo precedenti all’avvio delle lezioni si è trovato davanti la tragica scena. Presumibilmente l’estremo gesto sarebbe stato pianificato poco prima della chiusura dell’università nel giorno precedente.
Una sola nota lasciata vicino al corpo esanime, contenente le scuse alla famiglia per i fallimenti personali causati con lo studio. Si pensa dunque al suicidio, considerata l’assenza di segni di violenza e la chiusura della porta delle toilette dall’interno.
I carabinieri si stanno ora occupando di avvisare la famiglia e rintracciare le amicizie per fare luce sul caso. Milanese 19enne di origine sudamericana, la ragazza frequentava il noto Dipartimento di Lingue e Comunicazione. Secondo quanto riportato dal Corriere, la ragazza avrebbe già precedentemente annunciato la volontà di togliersi la vita e per questo la famiglia aveva segnalato la sua scomparsa già nella giornata precedente al ritrovamento.
In seguito ad una riunione straordinaria del Senato accademico, l’Università ha deciso di sospendere le lezioni della giornata del 1 febbraio in segno di lutto. “[L’intero ateneo] esprime il proprio attonito dolore di fronte alla tragedia di una giovane vita spezzata, manifesta il proprio cordoglio alla famiglia, agli amici, ai compagni della vittima e confida che la magistratura e gli organi inquirenti facciano quanto prima chiarezza sul decesso”.
Togliersi la vita per gli insuccessi scolastici è segno che qualcosa non sta funzionando
Non è questo però il primo caso di morte di fronte alle difficoltà nel percorso scolastico.
Risale a solo qualche mese fa il caso di Riccardo Faggin, il ragazzo 27enne di Abano Termi suicidatosi in seguito al rimorso delle bugie raccontate alla famiglia in merito al suo insuccesso universitario. Lo studente aveva sostenuto solamente pochi esami ma la vergogna provata era diventata insostenibile.
E ancora, Nicholas Turner, 23 anni, studente a Tunbridge Wells – nel Kent – toltosi la vita nell’estate 2019 il giorno in cui avrebbe dovuto discutere la tesi. I genitori erano convinti che il figlio fosse prossimo alla laurea, ma non avevano idea che fosse tutto una bugia.
E ancora, un giovane studente di giurisprudenza dell’Università di Bologna che lo scorso 7 ottobre è stato ritrovato nel fiume Reno, alla periferia di Bologna. 23 anni e la stessa bugia raccontata alla famiglia.
E ancora, studente 25enne di Lettere alla Federico II di Napoli. Studente trentenne dell’Università di Pavia, indirizzo medicina. Studente 24enne dell’Università di Bologna.
Difficile non provare una certa tristezza nel sentire le storie di questi giovani ragazzi. Giovani appena maggiorenni che di fronte ad un sistema scolastico chiaramente non pronto a determinate sfide li porta a sentirsi dei fallimenti. Perché ne abbiamo anche avuto abbastanza del sentire epiteti quali ‘sfaticati, nullafacenti e viziati’ in relazione alle nuove generazioni. I ragazzi sono creature in definizione, alla ricerca di una loro identità, della propria strada. Sono esseri fragili, insicuri, spaventati.
Un sistema scolastico meritevole di tale nomea dovrebbe guardare negli occhi i nostri ragazzi. Ascoltarli. Dargli gli strumenti per comprendersi. Per formarsi. Per scoprirsi. Non basta dichiararsi dispiaciuti quando accadono tali avvenimenti. Bisogna capirne le cause e intervenire in merito.
Bisogna tendere una mano in direzione di coloro che pensano che al tormento del fallimento non vi sia scampo. Perché le alternative esistono. E chi se non la scuola dovrebbe essere incaricato di rappresentarle?
Le parole del papà di Riccardo Faggin racchiudono appieno la morale di queste morti e ne riportiamo qui dunque un estratto di un’intervista al Corriere: “i modelli di identificazione, in questa società individualista e che non tollera le delusioni, non dipendono solo dalla famiglia, ma anche dal contesto sociale in cui vivono i ragazzi, dalla scuola, alle relazioni con i coetanei. I nostri figli stanno crescendo immersi in un modello che alimenta la competizione. Perché si cresce in una dimensione in cui l’idea di fallire non è accettata, e questo fa sì che parlare dei propri insuccessi sia sempre più difficile.”