Rimosse nove gigatonellate, ne restano settecentoquarantasei: l’impresa di risucchiare CO₂ dall’atmosfera

Gli scienziati dicono che per fermare il riscaldamento globale dobbiamo rimuovere centinaia di miliardi di tonnellate di anidride carbonica

Da anni sentiamo dire che per salvare il pianeta dobbiamo ridurre le emissioni di gas serra. Ma ormai non basta più. Anche se oggi smettessimo di bruciare carbone, petrolio e gas, l’anidride carbonica già accumulata nell’atmosfera continuerebbe a trattenere calore per secoli. Per questo gli scienziati parlano sempre più spesso di rimozione del carbonio: togliere la CO₂ che abbiamo già immesso, come se dovessimo aspirare il fumo rimasto in una stanza dopo l’incendio.

Il problema, però, sono i numeri. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), per mantenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi entro la fine del secolo, servirà eliminare tra 525 e 755 gigatonnellate di CO₂ dall’atmosfera. Finora ne abbiamo tolte nove. Non all’anno, ma in totale.

Quasi tutto è arrivato da metodi “naturali”, come la riforestazione o la gestione del suolo agricolo. Gli alberi, crescendo, assorbono anidride carbonica e la trasformano in legno, foglie e radici. I terreni ben curati trattengono più carbonio sotto forma di materia organica. Sono sistemi economici e già funzionanti, ma anche fragili e lenti. Una foresta che oggi assorbe CO₂ può domani bruciare o essere disboscata, restituendo all’atmosfera ciò che aveva immagazzinato.

E poi c’è il problema dello spazio: per piantare abbastanza alberi da fare davvero la differenza, servirebbe una superficie grande quanto l’intera India. E anche così, il guadagno climatico resterebbe temporaneo. Il suolo e le foreste possono essere una parte della soluzione, non il centro. Così la ricerca si è spostata verso tecnologie più radicali: sistemi in grado di “risucchiare” la CO₂ dall’aria in modo diretto e stabile, senza dipendere dalla natura.

Il futuro (energivoro) della cattura del carbonio: una corsa contro il tempo

Qui entra in scena il Direct Air Capture, o DAC: grandi impianti che sembrano usciti da un film di fantascienza, con ventilatori giganti e filtri chimici capaci di separare l’anidride carbonica dall’aria. Una volta catturata, la CO₂ viene compressa e pompata nel sottosuolo, in giacimenti naturali o in strati rocciosi porosi, dove può restare intrappolata per secoli.

L’idea non è nuova: già da anni l’industria petrolifera inietta CO₂ nel terreno per facilitare l’estrazione del greggio. Ma ora si tratta di usare la stessa tecnica per restituire al pianeta ciò che gli abbiamo tolto. I geologi assicurano che gli spazi ci sono: i depositi sotterranei in grado di contenere la CO₂ sono enormi, sufficienti per immagazzinare “molti trilioni di tonnellate”.

Tuttavia, catturare e immagazzinare carbonio richiede un’enorme quantità di elettricità e calore. Secondo uno studio recente, per arrivare a rimuovere 10 gigatonnellate di CO₂ all’anno, servirebbero 4,4 terawatt di energia rinnovabile aggiuntiva, più di tutta quella che oggi il mondo produce da fonti pulite. In pratica, dovremmo costruire un secondo pianeta di impianti solari ed eolici solo per alimentare le macchine che ripuliscono l’atmosfera.

Alcuni impianti sperimentali sono già attivi, in Islanda, negli Stati Uniti, in Svizzera. Ma il loro impatto, per ora, è simbolico: la quantità di CO₂ che riescono a togliere è infinitesimale rispetto a ciò che continuiamo a emettere ogni giorno. Il rischio è che la rimozione diretta diventi una promessa tecnologica che distrae dai tagli alle emissioni, invece di affiancarli.

Secondo gli scenari più ottimistici dell’IPCC, entro il 2100 dovremo arrivare a rimuovere ogni anno da 6 a 12 gigatonnellate di CO₂ tramite tecnologie come il DAC, il biochar (una forma di carbone vegetale stabile) o la “meteorizzazione accelerata” delle rocce, che cattura carbonio attraverso reazioni naturali. A queste si aggiungeranno 2–5 gigatonnellate provenienti da foreste e suoli.

In totale, si tratterebbe di spostare dalle nostre mani all’atmosfera e di nuovo nelle viscere della Terra oltre dieci miliardi di tonnellate di gas ogni anno. Una sfida che richiederà non solo innovazione scientifica, ma infrastrutture titaniche e cooperazione globale. Eppure, nonostante tutto, la direzione è quella. Gli esperti non parlano più di “se”, ma di “quanto in fretta” riusciremo a farlo. Le tecnologie ci sono, i fondi cominciano ad arrivare, e ogni anno nuovi progetti pilota vengono avviati.

Resta la sproporzione tra ciò che dobbiamo fare e ciò che abbiamo fatto finora: tolte nove, ne restano settecentoquarantasei. E il tempo, purtroppo, non si lascia catturare.