Dall’opposizione a Maduro al progetto di privatizzare il petrolio: la leader liberale divide l’opinione della scena politica
María Corina Machado è oggi uno dei nomi più discussi della politica internazionale. Ingegnera di formazione, nata a Caracas nel 1967, è diventata nel tempo il volto più riconoscibile dell’opposizione al regime di Nicolás Maduro. Leader del partito liberale Vente Venezuela ed ex deputata dell’Assemblea nazionale, ha fondato nei primi anni Duemila l’organizzazione Súmate, impegnata nel monitoraggio elettorale e nella promozione della partecipazione civica.
Per oltre vent’anni Machado ha sfidato i governi chavisti, denunciando brogli, corruzione e repressione. È stata esclusa più volte dalla vita politica, privata della possibilità di candidarsi e costretta a vivere per lunghi periodi in clandestinità. La sua figura è diventata simbolo della resistenza democratica venezuelana per una parte della comunità internazionale, fino al riconoscimento del Premio Nobel per la pace 2025, assegnatole dal Comitato di Oslo “per il suo impegno nella transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia”.
Dietro l’immagine ufficiale dell’attivista, però, si cela anche una figura politica fortemente divisiva. Machado rappresenta l’ala più liberale e filostatunitense dell’opposizione. Le sue posizioni in politica estera, la durezza nei confronti dei regimi di Cuba, Nicaragua e Iran e i legami con settori conservatori americani hanno alimentato un dibattito che va oltre i confini del Venezuela.
Il tema che più di ogni altro definisce il programma di Machado è il futuro del petrolio venezuelano, la principale risorsa economica del Paese. Dopo decenni di gestione pubblica attraverso la compagnia statale PDVSA, la leader liberale ha dichiarato più volte l’intenzione di privatizzare il settore e di aprirlo agli investimenti esteri, in particolare a quelli provenienti dagli Stati Uniti.
In un’intervista rilasciata a Donald Trump Jr. nel febbraio 2025, Machado ha parlato esplicitamente di “liberare il mercato” e “restituire il petrolio ai venezuelani” attraverso un modello che preveda la partecipazione delle imprese private americane. Secondo le sue parole, il Paese potrebbe diventare “la più grande opportunità d’investimento per le aziende statunitensi, che faranno molti profitti”.
Il messaggio è chiaro: per risollevare l’economia, Machado propone un ritorno ai capitali stranieri e un allineamento con Washington, promuovendo un Venezuela “alleato strategico degli Stati Uniti” nella regione.
La proposta ha immediatamente suscitato reazioni contrastanti. I sostenitori la considerano una svolta necessaria per attirare fondi, tecnologia e know-how, dopo anni di isolamento e inefficienza. Sottolineano che la produzione petrolifera venezuelana è crollata dai tre milioni di barili al giorno degli anni Duemila a meno di un milione, e che la corruzione e la mancanza di investimenti hanno ridotto PDVSA a un gigante in rovina. I critici, invece, leggono in queste dichiarazioni un ritorno al passato, quando le grandi compagnie americane controllavano direttamente l’oro nero venezuelano. Per la sinistra latinoamericana, il progetto di Machado segnerebbe la fine della sovranità energetica conquistata con la nazionalizzazione voluta da Hugo Chávez nel 2003. Alcuni la accusano apertamente di voler “svendere” le risorse nazionali in cambio di appoggi politici e militari dagli Stati Uniti.
Sul piano internazionale, la questione tocca interessi strategici di enorme portata. Con le riserve di greggio più grandi del pianeta, il Venezuela resta un attore cruciale nel mercato energetico globale. La sua apertura o chiusura ai capitali stranieri può ridisegnare gli equilibri della regione e incidere sui rapporti tra Washington, Mosca e Pechino, tutti presenti nello scenario venezuelano.
Machado ha ribadito più volte che la “ricostruzione del Paese” passa da un’economia di mercato aperta, basata su investimenti privati e partnership internazionali. Tuttavia, l’attuazione di questo programma resta incerta: il governo Maduro mantiene il controllo militare e politico del territorio, e la crisi interna rende difficile prevedere un cambio di rotta pacifico.
Se il riconoscimento del Nobel ha consacrato la sua immagine a livello internazionale, il futuro del Venezuela dipenderà da quanto le sue promesse potranno trasformarsi in politiche concrete. Per ora, la sua figura rimane sospesa tra simbolo e controversia, tra il desiderio di riportare la democrazia in Venezuela e l’ambizione di ridisegnare, con il petrolio come leva, i rapporti di forza nel continente americano.
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