Nella Bibbia non c’è alcuna mela: ecco come una serie di errori ha trasformato un frutto anonimo nel simbolo del peccato originale
Tutti conosciamo la scena: Eva tende la mano verso il ramo, coglie una mela lucida e la porge ad Adamo. Lui ne addenta un pezzo e, in quell’istante, il Paradiso svanisce per sempre. È un’immagine scolpita nella memoria collettiva, ripetuta per secoli in dipinti, sermoni, poesie, fino alla pubblicità e alla cultura pop. Ma se si apre la Bibbia, si scopre che la mela non c’è. Il testo parla soltanto di un generico “frutto” dell’albero della conoscenza del bene e del male. Da dove nasce, allora, l’idea che quel frutto fosse una mela?
Nei secoli successivi alla redazione della Genesi, i commentatori ebrei e cristiani si misero a discutere sull’identità del frutto proibito. Non era un dettaglio secondario: nella logica simbolica del racconto, capire quale frutto rappresentasse la conoscenza significava interpretare il peccato stesso. Alcuni pensarono che si trattasse di un fico, perché subito dopo aver mangiato il frutto Adamo ed Eva si accorsero della propria nudità e si coprirono con foglie di fico. Altri proposero l’uva, legando il peccato all’ebbrezza e alla perdita del controllo, o il melograno, simbolo di fertilità e di desiderio. In certe tradizioni ebraiche comparve perfino l’etrog, il cedro profumato usato durante la festa di Sukkot, considerato “bello alla vista e buono da mangiare” come l’albero dell’Eden descritto nella Genesi.
In ogni caso, per secoli nessuno pensò alla mela. Il racconto biblico era chiaro: il frutto era un simbolo, non un vegetale da identificare. L’atto di disobbedire a Dio, e non la natura del frutto, rappresentava la caduta dell’uomo. Ma, a un certo punto della storia, un errore di traduzione e una curiosa evoluzione linguistica cambiarono tutto.
Il passaggio cruciale avvenne nel Medioevo. Nei testi latini, il termine più usato per indicare il frutto proibito era pomum, parola che significava semplicemente “frutto d’albero”. Quando la Bibbia venne tradotta in francese antico, pomum divenne pom. All’inizio, il senso era ancora generico: pom voleva dire “frutto” in generale. Ma col tempo, nella lingua parlata, il termine si restrinse fino a indicare un solo frutto: la mela. Così, in modo del tutto involontario, i lettori delle Bibbie francesi cominciarono a immaginare che il frutto proibito fosse proprio una mela.
Parallelamente, anche il latino contribuì alla confusione. La parola malum aveva due significati: “male” e “mela”. La coincidenza era troppo suggestiva per non attecchire: quale frutto poteva rappresentare meglio il “male” del mondo, se non la “mela”, che in latino si diceva allo stesso modo? In realtà, nessuno dei grandi commentatori medievali citava davvero questo gioco di parole. Ma l’assonanza restava irresistibile, e in un’epoca in cui la lingua era anche strumento simbolico, la sovrapposizione tra “mela” e “male” si impose quasi da sé.
Dalle parole alle immagini il passo fu breve. A partire dal XII secolo, nelle miniature francesi e poi nei dipinti italiani, Eva cominciò a tenere in mano una mela rossa, tonda e perfetta. L’arte medievale e rinascimentale cercava sempre chiarezza e immediatezza visiva: una mela era più facile da rappresentare, da capire e da ricordare di un grappolo d’uva o di un melograno spaccato. Inoltre, nella tradizione classica, la mela era già un simbolo ambivalente. Era l’attributo di Venere, dea dell’amore e del desiderio, ma anche il frutto della discordia nella mitologia greca, quello che scatenò la guerra di Troia.
Col passare dei secoli, l’immagine divenne universale. Milton, nel Paradiso perduto, parla esplicitamente di una mela, confermando ciò che ormai tutti davano per scontato. Nei sermoni, nelle sculture e nelle illustrazioni, la mela divenne il simbolo della curiosità, della conoscenza e della colpa. Addentare una mela significava cedere alla tentazione, rompere un confine, desiderare ciò che non si può avere. E la scena dell’Eden, da mito teologico, si trasformò in una parabola universale sul desiderio umano.
Oggi sappiamo che la Bibbia non nomina alcuna mela. Ma la forza delle immagini, una volta fissata, è difficile da cancellare. Nel tempo, l’errore si è trasformato in verità simbolica: la mela è diventata ciò che il racconto non dice, ma suggerisce. In fondo, non importa quale frutto Eva abbia davvero colto. Quello che conta è il gesto: la mano che si allunga, la curiosità che vince la paura, la libertà che costa l’espulsione dal Paradiso. E se oggi quella curiosità ha il sapore di una mela rossa, è perché nei secoli abbiamo imparato a dare forma alle metafore con ciò che ci è più familiare.
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