Spettacolo

Twin Peaks, il genio e il disastro: perché David Lynch odiò la sua stessa creatura

La serie che cambiò la televisione nacque da un’idea rivoluzionaria, ma la seconda stagione divenne per Lynch “stupida, goffa e ridicola”

«Chi ha ucciso Laura Palmer?» è una di quelle frasi che, all’inizio degli anni Novanta, riuscì a travalicare qualsiasi confine. Nel 1991, mentre negli Stati Uniti si chiudeva la seconda stagione di Twin Peaks, in Italia Mike Bongiorno annunciava su Canale 5 «qualcosa di completamente nuovo». Aveva ragione: I segreti di Twin Peaks non somigliava a niente che il pubblico avesse mai visto prima.

Il mondo immaginato da Mark Frost e David Lynch, fatto di ciambelle e caffè nero, logge nere e visioni oniriche, piccoli drammi di provincia e presenze demoniache, riscrisse le regole della serialità televisiva. Con Twin Peaks, la tv diventava finalmente qualcosa di più simile al cinema d’autore: un luogo dove la trama contava meno dell’atmosfera, e dove l’orrore conviveva con la tenerezza, il surreale con il quotidiano.

L’Italia ne fu travolta. Ogni settimana, milioni di spettatori seguivano l’agente Dale Cooper (interpretato da Kyle MacLachlan) nelle sue indagini sull’omicidio di Laura Palmer, mentre la sigla di Angelo Badalamenti segnava l’ora della buonanotte per i bambini e l’inizio del rito per i genitori. Persino TV Sorrisi e Canzoni ne pubblicava riassunti e approfondimenti. Per la televisione di allora fu una piccola rivoluzione culturale. Ma proprio quando Twin Peaks sembrava inarrestabile, qualcosa cominciò a incrinarsi.

“La seconda stagione fa schifo”: il giudizio di Lynch e il naufragio creativo

Il successo della prima stagione spinse l’ABC a pretendere di più, e più in fretta. La rete costrinse Lynch a rivelare l’assassino di Laura Palmer nelle prime puntate della seconda stagione. Fu il principio della fine. Privata del suo mistero centrale, la serie perse il suo cuore e il suo equilibrio.

Lynch, contrariato, si allontanò dal progetto. Lasciò che altri registi ne prendessero le redini, tra cui Diane Keaton, che firmò uno degli episodi più curiosi e discussi della stagione. Ma la libertà concessa – o meglio, l’assenza di una guida – trasformò Twin Peaks in qualcosa di irriconoscibile. Keaton stessa raccontò che Lynch, pur concedendo carta bianca ai registi ospiti, «diceva semplicemente: fai quello che vuoi». Nessun coordinamento, nessuna supervisione, solo un universo narrativo ormai alla deriva.

Lo stesso Lynch, anni dopo, non ebbe esitazioni: «La seconda stagione fa schifo. È diventata stupida, goffa e ridicola. Ho smesso di guardarla perché era troppo brutta.» Tornò solo per dirigere l’episodio finale, provando a rimettere insieme i frammenti di quel mondo perduto. In quell’ultimo capitolo si riaffacciarono gli spettri della prima stagione: il mistero cosmico della Loggia, l’ambiguità di Cooper, il terrore che si fa visione. Ma era troppo tardi: gli ascolti erano crollati, e Twin Peaks fu cancellata.

Eppure, come spesso accade nelle storie lynchiane, la morte non fu la fine. Nel 1992 arrivò Fuoco cammina con me, cupo e incompreso, poi rivalutato come uno dei suoi film più radicali. E nel 2017 Twin Peaks: The Return chiuse il cerchio: Lynch e Frost ripresero i fili interrotti trent’anni prima, restituendo alla serie il suo enigma originario e la sua potenza visionaria.

In fondo, il giudizio impietoso del suo autore non cancella il fatto che Twin Peaks, persino nei suoi momenti più goffi, resti un punto di svolta nella storia della televisione. Forse proprio perché, come tutto ciò che è lynchiano, è destinata a oscillare per sempre tra il capolavoro e il disastro.

Andrea Segala

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