Da una fiera di paese inglese alle passerelle africane di oggi, il curioso percorso del concorso trasformato in fenomeno mediatico
Tutto comincia in Inghilterra, nel 1965, durante la Crab Fair di Egremont, una delle fiere più antiche del Regno Unito. Tra gare di mele e spettacoli di strada, un uomo di nome Albert Bennison viene proclamato “Ugliest Man in the World”. Non c’è un palco patinato né una giuria ufficiale, ma un pubblico divertito che applaude le smorfie dei partecipanti, mentre i fotografi immortalano un’umanità spavalda e un po’ caricaturale. Quella scena, registrata in un breve filmato oggi conservato negli archivi britannici, sembra una reliquia di un’epoca in cui la “bruttezza” era ancora una curiosità da fiera, qualcosa da mostrare con ironia ma anche con un certo disagio.
Questi concorsi nascevano dalla stessa logica che aveva alimentato i freak show: lo spettacolo del corpo fuori norma, l’esibizione dell’imperfezione come forma di intrattenimento popolare. L’“uomo più brutto” non era ancora una figura da celebrare, ma da osservare con una risata. Tuttavia, dietro quella leggerezza da villaggio si nascondeva una verità più profonda: la voglia di ribaltare, anche solo per una sera, le gerarchie della bellezza. La Crab Fair era un microcosmo della società britannica del dopoguerra, un luogo dove l’ironia contadina poteva rovesciare le regole dell’eleganza borghese.
È da questo humus che, decenni dopo, emergeranno i concorsi di “bruttezza” moderni. Gli anni Sessanta avevano consacrato i beauty pageant come simbolo di grazia e successo; la “gara dei brutti” era la loro controparte grottesca, una parodia di quei codici estetici. Ma con il tempo, ciò che nasceva come scherzo divenne qualcosa di più serio, persino politico. Quando, nel 2011, in Zimbabwe un comico di Harare di nome David Machowa lanciò il primo concorso Mr. Ugly, nessuno avrebbe immaginato che un’idea nata per gioco sarebbe diventata un fenomeno sociale, capace di attirare sponsor, pubblico e dibattiti internazionali.
Mr. Ugly in Zimbabwe: l’orgoglio e la rivincita della bruttezza
A differenza delle fiere inglesi del dopoguerra, Mr. Ugly nasce in un contesto più consapevole. Machowa, che di mestiere fa l’intrattenitore, ha dichiarato di voler dare “orgoglio e visibilità” a chi viene considerato esteticamente sfortunato. “La bellezza non è tutto”, ha spiegato, “anche la bruttezza merita di essere celebrata.” E così, in un paese segnato da povertà e disuguaglianze, il concorso si trasforma in un piccolo palcoscenico di riscatto. I partecipanti sfilano con abiti eccentrici e pose esagerate, ma dietro le risate del pubblico si avverte una strana forma di dignità.
Il suo protagonista assoluto è William Masvinu, un uomo dal volto scavato e dalle orecchie sporgenti, che ha vinto il titolo nel 2012, 2013 e di nuovo nel 2023. “La mia bruttezza è naturale,” ha dichiarato con fierezza, “non devo far nulla per migliorarla.” Attorno a lui, il concorso ha costruito un vero format mediatico, con giuria, premi in denaro e perfino contratti pubblicitari. Machowa ha spiegato di voler far crescere il brand Mr. Ugly fino a trasformarlo in un evento continentale, un “Mr. Ugly Africa”, e chissà, un giorno, in una competizione mondiale.
Ma ciò che colpisce davvero è la mutazione del senso stesso della “bruttezza”. Nelle prime edizioni, il tono era interamente comico; oggi, sempre più spesso, i concorrenti raccontano le loro storie di marginalità, cercando nel palco un momento di riscatto personale. La gara diventa allora una metafora: la possibilità di rivendicare il diritto di esistere fuori dagli standard imposti, di essere guardati senza vergogna. E se in Occidente l’estetica contemporanea tende a celebrare la diversità attraverso la moda e la pubblicità inclusiva, in Zimbabwe lo si fa con la sfrontatezza del cabaret popolare, tra birre e applausi, senza filtri e senza retorica.
Da Egremont a Harare, la storia dei concorsi della bruttezza è dunque la storia di un’evoluzione culturale: dal folklore al gesto sociale, dal riso al rispetto. Forse oggi Mr. Ugly non è più un carnevale della deformità, ma una festa della verità: quella che ammette che ogni volto, anche il più distante dai canoni, può essere un simbolo di libertà.