Lo smart working fa bene: uno studio ventennale lo dimostra (e la pandemia non è inclusa)

In un mondo che spesso porta le persone a raggiungere il burn-out lavoro correlato, lo smart working potrebbe essere davvero la svolta.

Lo “smart working” oggi sappiamo tutti cos’è. Ciò che un tempo era riservato a pochissime persone, molte delle quali lavoratori indipendenti, oggi è una pratica diffusissima, soprattutto grazie anche all’impennata verificatasi durante la pandemia.

Ora più che mai è diventato anche uno stile di vita, con sempre più persone, soprattutto giovani, che scelgono il lavoro da remoto per diventare “nomadi digitali”: una fetta che arriva a occupare più di 40 milioni di lavoratori, che utilizzano la tecnologia per condurre il proprio mestiere spesso in viaggio.

La libertà e la flessibilità sono solo alcuni dei vantaggi di questa pratica, che, secondo uno studio rilasciato nel novembre 2023, sarebbe estremamente benefica per la salute mentale dei dipendenti.

La ricerca, intitolata “The effects of commuting and working from home arrangements on mental health” (quindi “Gli effetti del pendolarismo e del lavoro da casa sulla salute mentale”), è stata pubblicata due anni fa dall’Istituto di Economia Applicata e Ricerca Sociale dell’Università di Melbourne.

Si tratta di un incredibile studio su ben 16 mila australiani, che è durato circa vent’anni. Per i più scettici, tranquilli, dal calcolo sono stati esclusi i due anni di pandemia, proprio per evitare che situazioni straordinarie alterassero i risultati.

La ricerca era ovviamente aperta a uomini e donne, di qualsiasi età e classe sociale, e il database utilizzato è stato quello dell’HILDA Survey (Reddito familiare e dinamiche del lavoro in Australia), che ha permesso ai ricercatori, Ferdi Botha, Jan Kabatek, Jordy Meekes e Roger Wilkins, di seguire nel corso di questo ventennio l’evoluzione della salute mentale del dipendente in base al tipo di lavoro che svolgeva.

Lo smart working è davvero meglio per il nostro benessere?

Uno dei risultati più schiaccianti è stato scoprire che per le donne il lavoro da remoto, almeno al 50-70%, sia estremamente benefico, soprattutto, ma non solo, per chi presentava una condizione mentale già fragile di partenza.

I vantaggi non si fermano solo al tempo risparmiato in trasporti, ma riguardano in modo particolare l’equilibrio lavoro/vita privata. Ciò comunque non sorprende: una divisione dei compiti domestici squilibrata, come quella riscontrata solitamente, ricade per la maggior parte proprio sulle spalle delle donne, che sentono in questo modo di riuscire ad avere più controllo sui compiti affidatigli a lavoro e ugualmente a casa.

Le persone con una salute mentale particolarmente fragile rappresentano la seconda categoria che da questo modus operandi trova più beneficio. In generale, comunque, si è riscontrato che non è lo smart working al 100% a essere la modalità più efficace, ma il cosiddetto lavoro ibrido, quindi una via di mezzo.

Non una giornata lavorativa da casa ogni due mesi, ma neanche la totale assenza dall’ufficio: una settimana lavorativa per tre quarti in remoto sembra essere la strategia migliore per condurre un’esistenza più serena e rilassata, ma mantenendo comunque tutti i contatti e i rapporti sociali con i colleghi.

Sugli uomini non sono stati riscontrati miglioramenti tangibili sulla salute mentale così netti, legati al lavoro da casa: la mancanza di pendolarismo diminuisce ovviamente i livelli di stress ma i benefici, nel complesso, non oltrepassavano questo limite.

Ovviamente lo studio è stato condotto con uno scopo ben preciso, ovvero fornire alle aziende un database sicuro che possa aiutare i policymakers nella creazione di linee guida aziendali. Lo smart working non è sicuramente per tutti, e non è  da prendere con leggerezza, ma può certamente essere una soluzione per tante persone, se strutturata con criterio e affrontata consapevolmente.