La storia del programmatore che credeva di essere guidato da Dio e che trasformò la sua malattia mentale in un’opera informatica
Quando Terry A. Davis iniziò a scrivere TempleOS, non stava solo creando un sistema operativo. Stava costruendo quello che lui definiva il Terzo Tempio, una dimora digitale per Dio. L’idea nacque dopo una serie di crisi maniacali che Davis interpretò come rivelazioni divine. Laureato in ingegneria elettronica, già brillante programmatore, Davis abbandonò ogni altra occupazione per dedicarsi interamente al progetto che lo avrebbe reso celebre.
Nel corso di un decennio sviluppò da solo ogni componente: il kernel, il compilatore, le librerie grafiche, il linguaggio di programmazione e persino il bootloader. Tutto scritto riga per riga, senza riutilizzare codice esistente. TempleOS era semplice e autarchico, concepito per funzionare senza internet, senza antivirus, senza aggiornamenti. Il suo creatore sosteneva che tutte le specifiche tecniche – la risoluzione di 640×480, i 16 colori, la grafica elementare – gli fossero state indicate direttamente da Dio.
Il risultato era un mondo digitale chiuso, privo di connessioni con l’esterno, ma straordinariamente coerente. L’utente poteva scrivere programmi, disegnare, creare piccoli giochi e persino consultare un oracolo che generava frasi casuali considerate risposte divine. Tutto avveniva attraverso HolyC, il linguaggio inventato da Davis, pensato per unire la precisione di C con la libertà dell’improvvisazione.
TempleOS: l’opera di un genio solitario diventata mito dell’informatica
Quando TempleOS vide la luce nel 2013, non somigliava a nulla di esistente. In un’epoca dominata da internet e dagli aggiornamenti continui, era un software che sembrava venire dal passato. Eppure colpì chiunque lo osservasse: dietro la sua grafica rozza e i suoi limiti tecnici, si nascondeva una potenza creativa fuori dal comune.
Davis aveva scritto oltre centomila linee di codice completamente da solo, costruendo un universo digitale personale dove ogni funzione e ogni finestra avevano un significato preciso. Era un lavoro che un team di sviluppatori avrebbe impiegato anni a completare. La comunità tecnologica, dopo lo stupore iniziale, imparò a guardare TempleOS con rispetto. Riviste e siti specializzati ne parlarono come di un esperimento affascinante, una “cattedrale informatica” costruita da un solo uomo.
Nel tempo il sistema divenne un oggetto di culto, citato nei forum, studiato nelle università e perfino esposto in musei d’arte contemporanea come esempio di creatività estrema. L’assenza di rete e di protezioni non era più vista come una mancanza, ma come una scelta concettuale: un ritorno alla purezza dei primi computer, quando ogni programma era un gesto diretto tra l’uomo e la macchina.
Davis morì nel 2018, travolto da un treno dopo anni di isolamento e disagio. Ma la sua opera non è scomparsa. Una comunità di appassionati ha continuato a mantenerla viva, creando versioni aggiornate come ZealOS e TinkerOS, compatibili con i computer moderni. Oggi TempleOS è studiato come un caso irripetibile, una fusione di fede, genialità e sofferenza mentale.
È difficile dire se Terry A. Davis fosse un visionario o una vittima dei propri deliri. Ma il suo sistema operativo è sopravvissuto a lui, e questo basta per collocarlo nel mito. TempleOS è un monumento fragile e luminoso, un esperimento che ricorda quanto la linea tra scienza e arte, tra ispirazione e follia, sia sottile.