Cultura

Il penalista, Pietro Nicotera tra toga e umanità: quarant’anni di giustizia italiana

Intervista a Pietro Nicotera, autore de “Il penalista”: dalla carriera in aula ai casi che hanno segnato la cronaca, un viaggio nell’evoluzione del diritto penale e nel ruolo dell’avvocato, tra etica, pressione mediatica e storie umane.

In un’epoca dominata dal giudizio immediato e dalla semplificazione mediatica, la figura dell’avvocato penalista sembra spesso confinata in uno stereotipo, sospesa tra la freddezza del tecnico del diritto e la spettacolarizzazione del dibattito pubblico. È proprio da questa dicotomia che prende le mosse “Il penalista”, l’opera con cui Pietro Nicotera, avvocato con oltre quarant’anni di esperienza in campo penale, decide di trasformare la sua lunga carriera in una testimonianza collettiva. Non un manuale tecnico, ma un racconto umano e critico che intreccia ricordi personali, processi celebri e una profonda riflessione sul ruolo etico e sociale del difensore.

Il volume, edito da Santelli, nasce da un bisogno intimo e al tempo stesso civile: «La necessità di lasciare una traccia», come confessa l’autore. Dopo decenni di udienze, fascicoli e volti, Nicotera sente l’urgenza di restituire il dietro le quinte della toga, le esitazioni, le notti insonni, le vittorie non festeggiate e le sconfitte che insegnano. Attraverso casi emblematici che hanno scosso l’opinione pubblica – dalle vicende di Emanuela Orlandi e Angelo Stazzi, alla lunga stagione del terrorismo con figure come Paolo Signorelli, fino ai complessi processi per femminicidio e agli abusi nella scuola materna di Rignano Flaminio – l’autore offre al lettore una lente per osservare come il diritto penale sia mutato di pari passo con i cambiamenti sociali e culturali.

Ma “Il penalista” è soprattutto un viaggio nell’umanità che alberga nelle aule di tribunale. Un viaggio che per Nicotera ha un punto di svolta preciso: un caso, emotivamente devastante, in cui difese un ragazzo accusato di aver tentato di uccidere il padre. Quel processo gli rivelò una storia di abusi e disperazione, insegnandogli che «il diritto non basta: serve ascolto, serve empatia». Da allora, come racconta, ha smesso di cercare la verità assoluta per dedicarsi alla “verità possibile”, comprendendo che l’avvocato non è un mero tecnico, ma un ponte tra il dolore e la giustizia. È questa consapevolezza a permeare il libro, arricchito dalla prefazione dell’on. Simonetta Matone, che con la sua esperienza in magistratura offre una cornice autorevole al valore di memoria professionale e civile che l’opera intende preservare.

In un panorama dove la deontologia deve conciliarsi con la pressione mediatica, Nicotera si erge con fermezza: l’avvocato non deve diventare un “influencer del diritto”. La sua forza, sostiene, sta nel «silenzio consapevole, non nel clamore», nel resistere alla spettacolarizzazione per custodire l’essenza di un mestiere fatto di scelte etiche, solitudini e una responsabilità profonda verso la storia di ogni cliente, mai ridotto a un semplice numero di ruolo.

Di seguito un paio di domande che abbiamo avuto la possibilità di porre all’autore circa il suo libro.

Cosa ti ha spinto a trasformare quarant’anni di esperienza forense in un libro?

La necessità di lasciare una traccia. Dopo quarant’anni di udienze, fascicoli, volti e storie, ho sentito il bisogno di restituire qualcosa. Non un manuale tecnico, ma un racconto umano: il diritto vissuto, non solo studiato. Volevo raccontare il dietro le quinte della toga, le esitazioni, le notti insonni, le vittorie che non si festeggiano e le sconfitte che insegnano. Raccontare, quindi, il mestiere dell’avvocato penalista non come lo si immagina nei film, ma come lo si vive davvero: tra dubbi, solitudini, responsabilità. Il libro è nato come un dialogo con i giovani, ma è diventato anche una riflessione su me stesso.
Inoltre Il bisogno di fare ordine e l’avere avvertito che non bastava più custodire tutto nella memoria. Il libro è nato anche per chi crede ancora che la giustizia sia una faccenda umana, prima che tecnica.

2. C’è un caso che più di tutti ti ha cambiato come avvocato e come uomo?

Sì. Un processo in cui difendevo un ragazzo accusato di aver tentato di uccidere il padre. Era un caso difficile, emotivamente devastante. Ma durante il dibattimento ho scoperto che dietro quel gesto c’era una storia di abusi, silenzi e disperazione. Quel processo mi ha insegnato che il diritto non basta: serve ascolto, serve empatia. Da allora ho smesso di cercare la verità assoluta e ho iniziato a cercare la verità possibile.
Non era solo una questione giuridica, ma umana ed ho capito che l’avvocato non è solo un tecnico del diritto, ma anche un ponte tra il dolore e la giustizia. Ho imparato a non giudicare, a non semplificare, a dare voce a chi non ce l’ha. Da quel processo ogni cliente è per me una storia, non un numero di ruolo.

3. Come si concilia oggi la deontologia con la pressione mediatica?

Con fatica, ma con fermezza. Viviamo nell’epoca del processo mediatico, dove l’opinione pubblica anticipa la sentenza. Ma l’avvocato deve resistere: non può diventare un influencer del diritto. La deontologia è la nostra bussola, anche quando tutto intorno spinge verso la spettacolarizzazione. Difendere non significa approvare, e rappresentare non significa esibire. La vera forza dell’avvocato è nel silenzio consapevole, non nel clamore.
Con disciplina e coraggio. Oggi l’avvocato è spesso chiamato a difendere non solo in aula, ma anche davanti alle telecamere. Ma la deontologia non è negoziabile: è il confine tra il professionista e il protagonista. Il penalista non deve inseguire il consenso, ma custodire il dubbio. La pressione mediatica può deformare il processo, e il nostro compito è resistere, anche quando il silenzio costa più della parola.

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